Soldati della Campagna di Russsia ancora sepolti nel Donbass

Nel 2014 scoppia una nuova drammatica guerra nel cuore dell’Europa, nel cosiddetto Bacino del Donbass la situazione si infiamma ed operazioni belliche diventano la tragica normalità per i villaggi e le cittadine della zona. Gorlovka, Debaltsevo, Pervomajsk, Alcevsk, Enakievo, l’area dell’aeroporto di Donetsk insieme alla città di Donetsk stessa ma come anche l’altra grande località del Donbass, Lugansk, diventano il fronte di questa guerra che, seppur ora con intensità minore rispetto ai primi anni, è sempre in essere con tutte le sue tristi conseguenze.
Nel 1941 il Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR) insieme poi all’ARMIR (Armata Italiana in Russia) presero parte, in compagnia di battaglioni ungheresi e rumeni, all’Operazione Barbarossa lanciata dai nazisti tedeschi con l’obiettivo di invadere l’Unione Sovietica.
La “Campagna italiana di Russia” durante la II° Guerra Mondiale (Grande Guerra Patriottica per i sovietici) si sviluppò fino al 1943 nella vasta area che va da Dnepropetrovsk (oggi Dnipro in Ucraina) e la media zona del fiume Don nei territori delle regioni di Belgorod, Voronezh e Kharkov dove si attestava la retroguardia con gli ospedali italo-tedeschi.
L’obiettivo nazista era la presa della città di Stalingrado (oggi Volgograd) per poi avere via libera verso il Caucaso, l’Azerbaijan ed il petrolio del mar Caspio.
Il territorio che vide particolarmente impegnato l’esercito italiano, il quale poi sconfitto dovette battere in ritirata, fu quello delle regioni di Stalino e Voroshilovgrad: le odierne Donetsk e Lugansk, il Bacino del Donbass.
Circa settanta anni prima della guerra che ha portato alla nascita de facto delle due repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, sugli stessi campi si consumò la tragedia della ritirata italiana dalla Russia (inglobata ai tempi nell’Urss).
Una tragica coincidenza storica, quindi, lega il Donbass all’Italia.
Durante la “Campagna di Russia” circa centomila soldati italiani persero la vita a causa delle battaglie ma soprattutto a causa del freddo e degli stenti che il “Generale Inverno” causò loro. Tantissimi furono anche i dispersi.
Mal equipaggiati e poco avvezzi alle rigide temperature delle campagne sovietiche a migliaia furono sepolti in fosse scavate nella dura terra dai loro commilitoni ancora in forze. A queste tombe di fortuna furono attaccate le piastrine di riconoscimento con i nomi dei deceduti ma, in base a delle intuizioni dei cappellani militari facenti parte della spedizione, molti ma non tutti furono sepolti con piccoli recipienti di vetro racchiudenti le singole generalità.
Il tempo infatti avrebbe corroso e fatto perdere le piastrine o magari più cinicamente, come accadde in molti casi, le stesse furono depredate e vendute od utilizzate in qualità di materiale utile ad altri scopi.
Tanti di questi piccoli cimiteri furono approntati nei dintorni di centri abitati e soprattutto di snodi ferroviari in modo che, una volta terminata la guerra, sarebbe stata più semplice l’operazione di rimpatrio delle salme.
Ma da quelle manovre belliche gli italiani non tornarono, letteralmente si ritirarono alla meglio ed alla rinfusa tanto che numerosi rientrarono a casa solo mesi dopo l’inizio del viaggio verso l’Italia.
I luoghi di sepoltura rimasero quindi dove erano sorti. La maggior parte in stato di abbandono e seminascosti da vegetazione, spazzatura, alla mercè degli agenti atmosferici e finirono per diventare ricordi sbiaditi di un’epoca passata per i cittadini locali. Anche se scoloriti non proprio per tutti considerato che, in alcuni casi, gli italiani si macchiarono di violenze come si evince da documenti conservati negli odierni archivi russi e da testimonianze tramandate.
Ma questa è un’altra pagina della storia.
Altri luoghi di sepoltura erano giusto delle fosse comuni che ebbero una sorta diversa: al disgelo climatico e bellico i corpi ammassati insieme di italiani, tedeschi, ungheresi, romeni ma anche di sovietici furono incendiati e ridotti in cenere. Altre fosse comuni accolsero i corpi degli italiani morti da prigionieri insieme a quelli di gente del posto magari caduta sotto i bombardamenti. Di molti di questi cimiteri se ne persero le tracce.
Negli anni successivi solo i racconti dei reduci e le ricerche di alcuni studiosi e giornalisti hanno provato a ricostruire le storie ed anche ad individuare questi luoghi di sepoltura.
Negli anni ’70, in seguito ad alcune missioni private, alcuni di questi cimiteri sono stati rintracciati, visitati e varie salme sono state fatte rientrare.
Bisogna attendere però i primissimi anni ’90 per delle missioni istituzionali di rimpatrio in Italia di alcuni soldati che, in assenza di discendenti che ne reclamarono i resti, vennero inumati nel Tempio di Cargnacco, in provincia di Udine, luogo dedicato sin dalla metà degli anni ’50 al ricordo degli scomparsi della “Campagna di Russia”. Qualche ulteriore rimpatrio è avvenuto anche in seguito, l’ultimo nel 2018. Ma tanti sono ancora i cimiteri “italiani” abbandonati oltre che in Russia ed in Ucraina anche nelle attuali Repubbliche di Donetsk e Lugansk le quali ospitano nei loro territori il maggior numero di questi piccoli luoghi di sepoltura.
Nel 2015, in piena guerra, una delegazione italiana omaggiò con una breve visita il cimitero di Enakievo (Rykovo ai tempi della “Campagna di Russia“) dove in un magazzino erano raccolte singole cassette con i resti di sodati italiani, tedeschi e rumeni.
Località quindi quali Enakievo, Krasnyi Luch, Gorlovka, Debaltsevo, Vuhlehirsk, Sofivka, Pervomajsk come le stesse città di Donetsk (a Juzovka nella sua periferia) e Lugansk e vari altri villaggi conservano ancora i resti di numerosi soldati italiani. Gli stessi luoghi toccati dalla “guerra del Donbass”.
Alcuni di questi cimiteri si trovano giusto sulla linea ufficiale del fronte che separa le Repubbliche de facto da una parte con l’Ucraina dall’altra.
Guerra scoppiata proprio dove riposano in eterno i soldati italiani non scampati da vivi ai bombardamenti del 1941 – 1943 ma neanche da morti a quelli iniziati nel 2014 e non ancora del tutto terminati.

LUCA PINGITORE

Articolo apparso su ilquotidianoditalia.it  del 13/12/20

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