Mongolia: il monastero perduto nella steppa

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E’ circa ora di pranzo quando il grande pullman con targa mongola su cui mi trovo inizia a rallentare nei pressi di Kjachta. Faccio appena in tempo a riprendermi dallo stato di sopore in cui verso ed ecco che diminuiamo la velocità, in vista della frontiera russo-mongola. Dopo quasi 30 giorni intensissimi è arrivato il momento di congedarsi ancora una volta con la Russia; La terra di Genghis Khan si trova proprio là … giusto a un paio d’ore di controlli e formalità doganali. L’autista carica e riscarica i nostri bagagli diverse volte. Nell’ufficio doganieri russi ispezionano il mio documento con una specie di lente di ingrandimento e quando me lo restituiscono tiro il solito respiro di sollievo di sempre. E’ quasi fatta, ancora un’altra stanza con la luce soffusa, un nuovo timbro sul mio passaporto, e la poliziotta mongola dai simpatici occhi a mandorla mi sorride, dicendo: “Welcome to Mongolia”.
Ci fermiamo per pranzo in una specie di caffè cadente, subito dopo il confine. Diverse donne di una certa età si accalcano intorno al nostro autobus, e ci propongono insistentemente di cambiare ‘tugrik’ in nero. Sono passate almeno 5 o 6 ore da quando abbiamo lasciato Ulan-Ude, capitale della repubblica russa di Buriazia. Nel cielo torna a splendere il sole e il grigiore siberiano sembra essere ormai un ricordo, seppur ugualmente splendido. Vedo la steppa che si perde all’infinito, costellata ogni tanto dalle ‘gher’ dei nomadi e dai numerosi pascoli. Bimbi a cavallo che non avranno più di 6 anni si destreggiano nelle praterie senza nemmeno una sella. Guardarli mi suscita un fortissimo senso di libertà. E’ difficile staccare lo sguardo dal finestrino, in preda all’emozione.
Intanto la nostra strada continua a scorrere, i chilometri si macinano e le prime luci del pomeriggio si cominciano ad addensare su di noi. La percezione è quella di una sorta di stallo esistenziale, in cui il tempo parrebbe come dilatarsi. La devushka buriata seduta vicino a me è di poche parole, si reca a Ulaanbataar per studio. Saranno le ultime volte in cui potrò veramente conversare in lingua russa. L’arrivo a Darkhan è uno shock visivo: Tra palazzoni moderni e grandi complessi abitativi che sembrano nascere dalla terra stessa. Questa città secondaria è fra le più importanti del Paese, e si trova a circa cento chilometri di pista dal Monastero Amarbayasgalant, mia agognata meta.
Faccio cenno all’autista che devo scendere … sono l’unico tra i passeggeri a fermarsi in questo luogo remoto. Come mi tuffo fra le vie della città il caldo è intensissimo e per me è come ritrovarmi in un altro mondo. Mentre un gran polverone si solleva dai vialoni senza asfalto, mi avvicino a quello che sembra essere una specie di bazaar, pieno zeppo di gente. Sono madido di sudore e carico di bagagli all’inverosimile. “Kto-nibud govorit po russki ili po angliyski?”- “Amar-bayas-galant”- E’ come se gridassi al vento, perché parlano tutti solo mongolo. Ho bisogno di raggiungere la mia meta prima del calare della sera e a Darkhan comincia ad essere veramente tardi. Voglio assolutamente evitare di fermarmi in uno dei pochi alberghi della città, perché l’indomani sarei dovuto essere già ad Ulaanbataar, e per il monastero non sarebbe rimasto più tempo. Testardo quale sono, non demordo e conosco finalmente un venditore che spiccica qualche parola di russo.
Mi si avvicina, abbandonando il suo banco e cerchiamo di comunicare. “La stazione dei bus è in ristrutturazione ed ora si trova da un’altra parte della città”- “Difficile che qualcuno da lì ti conduca fino al monastero…”. Nemmeno faccio in tempo ad allarmarmi, vista la situazione di grande incertezza, che dalla folla si materializza un uomo di mezza età, col viso cotto dal sole e lo sguardo buono. Si chiama Baraa e ogni tanto arrotonda le sue giornate come tassista, usanza molto diffusa in Asia ed ex Repubbliche Sovietiche. Anche lui se la cava col russo e mi può dare una mano. Si aprono le trattative, un po’ a parole e un po’ a gesti; Bisogna sbrigarsi perché intanto il tempo sta volando. Riusciamo a metterci d’accordo, e questa volta nella baracca di un ufficio di cambio valute locale, l’impiegata non è puntigliosa come a Irkutsk. Accetta i miei euro, nonostante fossero ‘sporcati’ da un timbro e mi ritrovo con il portafoglio che quasi fa fatica a richiudersi per il gran numero di banconote ricevute. Prima di intraprendere la strada verso Erdenet, ci salutiamo col venditore accorso in mio aiuto, che mi lascia il suo numero scritto su un pezzo di carta – “In caso di necessità non esitare a contattarmi!” – La Hyunday modello ‘berlina’ di Baraa è lucida e nuova di zecca… Mi domando dentro di me come possa tenere le vie dissestate che ci aspettano, ma è meglio mettere a tacere ogni dubbio. Partiamo e le prime due soste sono per il rifornimento di gasolio e la scorta di viveri. Entriamo in un tipico supermercato mongolo, e prendo confidenza con la moneta del posto. Compro frutta secca, biscotti e dei succhi per il viaggio che ci aspetta. I prezzi sono veramente irrisori, fatta eccezione per il carburante che non è proprio economico per gli standard del paese.
Inizialmente percorriamo un lungo tratto di strada su fondo sterrato e irregolare, dal momento che la strada principale verso Ulaanbataar è chiusa per lavori. Il mio autista si destreggia abilmente fra enormi crateri e ripidi dossi. Le macchine che vengono in senso contrario sollevano delle nubi di polvere, che a tratti ci impediscono la vista. Baraa si rivela una persona estremamente tranquilla e discreta. Vive a Darkhan con la sua famiglia e la sua conoscenza del russo è legata alla sua gioventù, durante la quale ha frequentato per un periodo l’università di Ekaterinburg ai tempi dell’ URSS.
Quando torniamo finalmente sull’asfalto, la città è ormai distante. Immense pianure verdeggianti si perdono a vista d’occhio alternandosi a innumerevoli colline. Ma a dominare lo scenario è il cielo della Mongolia, magnifico ed enigmatico, dove le nuvole sembrano dipinte dalle mani di un artista. Il tutto, unito alle canzoni mongole trasmessa dalla radio, risveglia sensazioni recondite. Il sole lentamente inizia a scendere sulla linea dell’orizzonte che mi permette di intravedere la curvatura del globo. E poi ancora steppa, praterie, cavalli, nuvole. La loro contemplazione crea in me un grandissimo senso di benessere e mi ritrovo immerso in spazi immaginati tante volte. Penso a quanto sia duro l’inverno qui, coi suoi -30/-40°C costanti, e agli intrepidi cavalieri di Genghis Khan, che un tempo conquistarono mezza Eurasia, spingendosi fino all’attuale Ungheria.

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Dopo più di due ore di viaggio, raggiungiamo un gruppo di gher al lato della strada, abitate da alcune famiglie nomadiche. Ci fermiamo a mangiare qualcosa prima degli ultimi 40 km di pista rimasti. Gli Huushuur, le tipiche frittelle farcite con carne di montone e spezie che ci servono per cena, sono squisiti. Non facciamo in tempo a saziarci, che sentiamo urlare in lontananza. Scorgo una ragazza dai tratti europei allontanarsi da alcune tende per avvicinarsi verso di noi. Con mio grande stupore noto che inizia a dialogare in lingua mongola con Baraa. Il suo nome è Ines, di origini francesi e sta viaggiando da circa un mese in solitaria. Con lei solo un grande zaino, tanto coraggio e una tenda per campeggiare. Decidiamo di dargli un passaggio, essendo anche lei diretta al monastero.
La parte finale del tragitto è avventura allo stato puro: l’asfalto sparisce e la macchina si inerpica fuoristrada su un percorso assurdo. Non capisco come una semplice Hyundai possa reggere un fondo simile, eppure procediamo a cannone. Ormai il sole è tramontato del tutto e il cielo si tinge di striature rossastre. Si fa buio e Baraa si orienta nel nulla della steppa come se fosse in una grande città. Ines mi racconta un po’ della sua vita, della sua avventura nella terra dei nomadi e della Transiberiana, che sarebbe stata prossima a percorrere; Studia scienze politiche in Spagna ed è venuta in Oriente per un periodo sabbatico. Le faccio i complimenti per come se la cavasse con la lingua mongola, ma lei mi risponde che aveva imparato per sopravvivenza. Fuori è buio pesto e guadiamo persino un corso d’acqua nero come la pece. Scaccio dalla mia testa il pensiero di un’eventuale avaria in mezzo al niente. Poi avvistiamo alcune luci nell’oscurità, e capiamo che il campo di gher dove trascorreremo la notte è ormai vicino.
Ci sistemiamo tutti e tre in una tenda, riscaldandoci intorno alla stufa in ghisa incandescente posta al centro. Avevo già dormito in una yurta nomadica circa due anni prima in Kirghizistan e riprovo un forte senso di simbiosi con l’ambiente circostante. Ines estrae dallo zaino una bevanda alcolica del posto molto simile alla vodka, dal leggero retrogusto caprino. Brindiamo alla nostra amicizia e imitando Baraa, bagniamo l’anulare nei bicchieri; Poi spargiamo il liquido verso il cielo come segno di riconoscenza nei confronti degli dei, secondo la tradizione di queste terre. Fuori il buio più totale e ad avvolgerci un involucro di stelle. E’ in questo momento che faccio la conoscenza di Roy, un simpaticissimo ragazzo estone che alloggia nel nostro campo. Sono dieci anni che viene in Mongolia e sta accompagnando un gruppo di turisti del suo paese. Mi presenta la proprietaria del nucleo di gher, chiamata Gala, una ragazza di Ulaanbataar giovanissima che parla un ottimo inglese. Tutti imbacuccati per la forte escursione termica notturna, ci sediamo intorno a un tavolo di legno all’aperto e parliamo dei più svariati argomenti. Storie di vita quotidiana, avventure in paesi lontani. E ancora eventi già vissuti sulla mia pelle, come quel visto Schengen troppo difficile da ottenere da parte di Gala. Poi la stanchezza prende il sopravvento, gli ultimi mozziconi si spengono e arriva il momento di ritirarsi a dormire.
La notte trascorre veloce e il sonno pieno, non disturbato dal benché minimo rumore, mi rigenera del tutto. Alle prime luci dell’alba sono già in piedi. Baraa e Ines ancora dormono profondamente, e io muovendomi in modo accurato per non fare rumore, sgattaiolo fuori dalla gher. L’aria è pungente, non essendo ancora sorto il sole, e i prati verdeggianti sono coperti da un leggero strato di brina. In lontananza, quasi a sovrastare il campo, scorgo la cinta muraria del monastero sorvegliata dalla grande statua del Buddha d’orato in cima a una collinetta. Respiro intensamente e ripenso a quando da bambino mi alzavo prestissimo per andare in montagna, durante le mie scorribande estive in Abruzzo. Poi nel mattino silenzioso mi avvio verso il tempio. Cammino sul falsopiano che mi separa dal complesso, e mi godo le praterie ancora assopite. Quando raggiungo l’entrata principale delle mura, mi trovo di fronte una vecchia porta di legno semi accostata. Varco la soglia scricchiolante e mi ritrovo immerso in una quiete senza tempo. All’interno si apre alla mia vista una sorta di giardino, dove sorgono da un lato il tempio principale magnificamente adorno, e dall’altro tutta una serie di edifici minori.

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Apparentemente non scorgo nessuno, avverto solo il tubare dei piccioni che conferisce all’atmosfera un tocco spettrale. Faccio un giro di ricognizione per esplorare lo spazio circostante. Passo vicino alle immancabili ruote delle preghiere, cariche di sacralità. Poi entro in un grande atrio con enormi statue dallo sguardo severo, legate alla tradizione buddhista. Mi balena l’idea che il luogo possa essere disabitato, eppure dalle informazioni da me raccolte ero abbastanza certo del contrario. Cammino ancora avanti e indietro, scattando molte foto, fino ad entrare nel tempio vero e proprio; e’ di una bellezza unica, ricco di tappeti multicolori e sorretto da possenti colonne. A regnare è la penombra, che quasi induce alla meditazione i visitatori. A un certo punto sento il suono di una campana in lontananza e fanno ingresso una miriade di piccoli monaci. Alcuni sono veramente piccoli, di una dolcezza unica mentre ancora sbadigliano assonnati. L’Amarbayasgalant, sperduto nell’Aimag di Selenge, è uno dei siti monastici principali dell’intera Mongolia. Qui i lama vengono inviati dalle famiglie per fare apprendistato, quando sono ancora bimbi.
Il suono delle preghiere, che rimbomba sulle pareti, da quasi i brividi. I piccoli discepoli si iniziano a disporre in cerchio insieme ai più grandi per la preghiera del mattino. Io resto lì a osservare la scena, unico visitatore straniero. Quando la funzione termina, mi avvicino verso uno di loro per immortalare il momento. Il ragazzino, capendo al volo mi sorride e si mette in posa. Io gli regalo una moneta da un euro con lo stemma dell’aquila tedesca. Mi resterà a lungo impresso il suo sguardo di felicità misto a stupore, mentre ispeziona con curiosità quel piccolo dono proveniente da un paese così lontano …

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Nel frattempo i raggi solari diventano sempre più alti e l’aria si riscalda. Si sta facendo tardi e devo rientrare al campo, dove mi aspetta Baraa. Dobbiamo assolutamente arrivare a Darkhan prima di pranzo. Scendo giù al campo, dove nel frattempo si sono svegliati tutti. Il gruppo di estoni è intento a fare colazione, mentre Ines non sa se venire via con noi o restare lì ancora un giorno. Alla fine opterà per rimanere, e godersi ancora un po’ il luogo.
La strada di ritorno scorre velocemente per fortuna, dal momento che all’ora di pranzo mi attende il treno per Ulaanbataar, che vorrei raggiungere in serata. Mi addormento lungo buona parte della via, cullato dal paesaggio idilliaco della terra dei nomadi. Quando arriviamo in prossimità della città facciamo una piccola sosta … intravedo i binari della ferrovia transmongolica, che solitari si perdono in questi territori sterminati.
E’ quasi l’una e i palazzoni della città che si stagliano nella steppa come cattedrali nel deserto, ci accompagnano nel nostro tragitto verso la stazione ferroviaria, sembrando quasi volerci dire addio. Sento che anche questa avventura sta per giungere al termine, proiettato verso un nuovo capitolo della mia lunga strada; E pensare che dal giorno della mia partenza da Mosca a fine luglio, ho già percorso via terra quasi 6000 chilometri.
Come arriviamo nei pressi della biglietteria, ad attenderci c’e’ anche Batzorig il figlio di Baraa, che prontamente ci viene incontro. I due mi aiutano nell’acquisto del biglietto per la prima partenza disponibile verso la capitale, che sarebbe stata di lì a breve. Tiro un sospiro di sollievo, pensando che tutto stesse andando secondo le mie intenzioni. Arriva l’ora del congedo coi miei nuovi amici, e ci salutiamo calorosamente con la promessa forse di rivederci ancora: “Bayarlalaa” che in mongolo significa grazie.
Nel frattempo la folla comincia ad accalcarsi intorno al vagone, di fronte a me un bimbo in braccio alla mamma mi guarda incuriosito. E’ ora di andare … sollevo da terra la mia valigia impolverata, fedele compagna di tante avventure e salgo sul treno, pronto a tuffarsi verso sud fra le steppe dell’Asia Centrale, che ancora una volta mi hanno regalato grandi emozioni.
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LUCA ACITELLI

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