Gli Alpini della Campagna di Russsia. Una questione ancora aperta

Era il gennaio 1943 quando l’Armata Rossa, nei dintorni del fiume Don, sbaragliò le linee nemiche dell’Asse composte da reparti ungheresi, nazisti e da Alpini italiani, durante la cosiddetta “Offensiva Ostrogodshk – Rossosh” (dal nome delle due località protagoniste delle operazioni). La serie di battaglie che precedettero questa operazione insieme alle successive portarono poi, all’inizio del febbraio successivo, alla caduta di Stalingrado e quindi alla fine delle intenzioni naziste di sconfiggere i sovietici ed arrivare ad occupare Baku, le sponde del mar Caspio ed avere accesso alle ricchezze naturali della zona.
Gli scontri militari avvenuti nei dintorni di Rossosh, cittadina ubicata nella provincia di Voronezh in Russia, fanno parte delle pesanti sconfitte che segnarono il fallimento della “Campagna italiana di Russia” durante la II° Guerra Mondiale, terminata con il ritiro confusionario del Corpo di Spedizione Italiano e dell’Armata Italiana che annoverarono migliaia tra morti e dispersi.
Recentemente abbiamo sottolineato la tragica coincidenza di come nella regione del Donbass, oggi sconvolta da una nuova drammatica guerra, esistano ancora dei cimiteri con i corpi di soldati italiani rimasti li dalla disfatta della “Campagna di Russia”.
In questo articolo, invece, ci occuperemo di una accesa polemica scoppiata qualche tempo fa inerente proprio la “celebrazione” del Corpo degli Alpini italiani nella cittadinanza di Rossosh.
Vediamo nei dettagli da dove parte questa polemica e le motivazioni che l’hanno accesa anche tramite le colonne di alcuni media russi online della regione in questione.
Alcuni studiosi di storia locale hanno ripescato negli archivi della zona di Voronezh varia documentazione circa crimini commessi dai nazisti e dai loro alleati durante la loro permanenza nella regione. In particolare alcuni documenti ufficiali comproverebbero la responsabilità di alcuni Alpini in tragici episodi criminali.
Un documento ricorderebbe come “Il Comitato esecutivo del Consiglio distrettuale dei deputati dei lavoratori della regione di Voronezh, villaggio di Olkhovatka”denunciò violenti fatti accaduti nel 1943 nel paesino citato. Secondo il documento in questione “dodici persone [il documento fa i nomi], tutti civili, tra i quali un agricoltore, un conducente di trattore e sette componenti di una stessa famiglia furono brutalmente uccisi. Ad una giovinetta appartenente alla famiglia furono tagliati i seni e bruciati i capelli mentre ad un bambino di due anni, sempre componente della stessa famiglia, spezzarono gambe e braccia, lo tramortirono con un bastone e poi gli spararono. Fatto questo, i corpi furono cosparsi di cherosene e bruciati”.
Ma di episodi ve ne sarebbero diversi.
Come “il seppellimento, ancora in vita, di una giovane insegnante e della sua figlia di cinque anni”. O come “il cecchino che colpì una donna ad una gamba mentre era intenta a raccogliere patate nel suo orto e le deliberate esplosioni, tramite spari mirati, di granate disseminate nei campi mentre gli uomini lavoravano ed i bambini giocavano”.
Esisterebbe anche un documento sulle “avventure degli italiani in Russia” scovato nell’Archivio Centrale del Ministero della Difesa della Federazione Russa [Fondo 334. Inventario 5259. Caso 2. Foglio 150]. Secondo il documento “Nel villaggio di Bely Kolodets, distretto di Bogucharsky, regione di Voronezh, dopo la battaglia del 15 dicembre 1942, un gruppo di dodici soldati dell’Armata Rossa feriti fu catturato e gli uomini gettati dietro un recinto di filo spinato all’aria aperta nella neve. Gli italiani hanno tolto gli stivali ai soldati e li hanno lasciati completamente senza scarpe nel forte gelo, non hanno dato da mangiare ai prigionieri, li hanno picchiati e, per oltraggiarli ulteriormente, di tanto in tanto gli lanciavano delle ossa da rosicchiare. Il 17 dicembre, nel pomeriggio, gli italiani hanno portato fuori i prigionieri da dietro la recinzione e hanno iniziato a picchiarli brutalmente con bastoni e calci di fucile. I nazisti [gli italiani così definiti] hanno picchiato i soldati feriti e disarmati dell’Armata Rossa con calci di fucile e bastoni sul corpo, sulle gambe, sulle braccia e sul viso insanguinati. Poi gli uomini dell’Armata Rossa, torturati e brutalmente picchiati, furono portati a morire. Gli italiani, avvertendo l’avvicinarsi delle unità dell’Armata Rossa al villaggio, avevano fretta di occuparsi rapidamente dei soldati catturati. Alle 18 in punto, il 17 dicembre, gli uomini dell’Armata Rossa furono colpiti a bruciapelo da mitragliatrici e fucili e quelli che mostravano ancora segni di vita furono uccisi dai nazisti [gli italiani] con il calcio dei fucili.
Tutti questi aberranti crimini, secondo questi documenti ritrovati nei vari archivi, sarebbero stati commessi su “ordine del comando del Corpo Italiano Fucilieri Alpini” e la citata “Commissione per i fatti di Olkhovatka stabilì che le malvagie esecuzioni di civili fossero eseguite su ordine del reparto gendarme del corpo alpino [riportando i nomi dei militari italiani coinvolti]”.
I soldati italiani, come si evidenzia dai documenti dell’epoca, erano equiparati ai nazisti tedeschi essendo loro alleati ed avendo condotto di comune accordo l’invasione dell’Urss. Ed in seguito si poteva anche ascoltare qualcuno dire che gli “italiani fascisti invasero il nostro paese su ordine di Mussolini”.
Oramai però il ricordo di quei tempi si è affievolito e negli anni a Rossosh si sono svolte alcune manifestazioni commemorative in onore dei caduti del Corpo degli Alpini. L’iniziativa principale è stata la cosiddetta “Operazione Sorriso”. Nel 1992 iniziò una raccolta di fondi e nel 1993, i veterani di guerra ed i loro discendenti tutti membri dell’Associazione Nazionale Italiana Tiratori Alpini (ANA), sotto lo slogan “Ricorda i morti, aiuta i vivi“, costruirono un asilo nella cittadina. Non lontano dai luoghi dalla battaglia di Nikolayevka e dove erano ancora visibili i resti di un edificio oramai demolito che fu adibito a quartier generale del Corpo degli Alpini durante l’ “occupazione italiana”. Nella piazza di fronte l’asilo i “benefattori dell’Appennino“, così definiti ironicamente dai fautori della polemica, eressero poi nel 2003, a dieci anni dalla costruzione dell’asilo, un piccolo monumento, una scultura dalla forma del classico cappello con la penna, simbolo riconosciuto degli Alpini. Per l’occasione fu pubblicato anche un libro celebrativo dal titolo “Torneremo a Rossosh. Operazione “Sorriso”” che fu regalato alle istituzioni cittadine le quali accolsero circa 1500 persone tra Alpini e parenti al seguito ed indissero giorni di festa per la popolazione locale.
I fatti, secondo chi polemizza, sono simbolici ma altamente offensivi.
Nel 2003, infatti, nelle vicinanze di Rossosh gli Alpini insieme ad alcuni storici italiani si misero alla ricerca di alcuni luoghi dove ancora erano certi di trovare di resti di soldati italiani caduti in guerra. Nelle campagne tra i villaggi di Zeleny Yar e Novaya Kalitva riuscirono ad individuare l’esatta ubicazione del famoso “crocevia sanguinoso”, del quale esistevano solo vaghe segnalazioni. Il posto era il punto dove, secondo la testimonianza del cappellano militare dell’Armata Italiana, era stata lasciata una fossa comune con i corpi di alcuni fucilieri alpini del battaglione Aquila caduti durante le operazioni belliche. Furono quindi trovate delle ossa, tra le quali due frammenti di un femore, che furono raccolte in un contenitore, portate a Rossosh e murate proprio all’interno del monumento raffigurante il cappello degli Alpini costruito di fronte l’asilo. Tutto ciò contravvenendo alle leggi russe ma sostanzialmente in vigore anche in Italia ed a livello internazionale, secondo le quali resti umani non possono esser trafugati, trasportati ed inumati a proprio piacimento e senza verifiche ed autorizzazioni delle autorità competenti in materia.
La collocazione di questi frammenti ossei nel piedistallo del monumento, era nota in maniera informale ad alcuni personaggi delle istituzioni locali ma l’azione fu compiuta dai discendenti degli Alpini senza ufficialità e sostanzialmente in segreto tanto che non fu neanche resa nota alla cittadinanza. Solamente nel 2018 la cosa trapelò in maniera pubblica e ne seguì una denuncia alla Procura Generale. Le autorità locali, con una azione maldestra, provarono quindi a disseppellire i resti degli Alpini murati dentro il monumento ma oramai una parte dell’opinione pubblica locale era già insorta, aizzata da influenti personaggi del posto.
Nella scorsa estate, tra giugno e luglio 2020, la polemica ritorna veemente a causa di nuovi articoli di un giornalista del luogo e di uno dei discendenti della famiglia sterminata citata da uno dei documenti storici. Tramite dei lunghi e dettagliati report, sul media regionale “Stoletie”, vengono resi pubblici ulteriori dettagli, corredati di documentazione fotografica, circa l’ “Operazione Sorriso” attuata dagli Alpini scagliandosi soprattutto contro il piccolo monumento da questi eretto e che campeggia in una delle piazze del paese. Il “Monumento al fascista sconosciuto” come viene definito.
Si è saputo che durante la costruzione del piedistallo, gli italiani misero i resti dei soldati di Mussolini morti durante la guerra. Quindi si è scoperto che ora, nell’anno del 75 ° anniversario della nostra vittoria sul fascismo, nel mezzo della città russa di Rossosh, c’è un monumento ai caduti di guerra nazisti. È come se nelle vicinanze di Leningrado venisse eretto un monumento a forma di elmo che ricordi, ad esempio, i soldati della “Divisione Blu” spagnola che hanno preso parte all’assedio. O forse dovremmo ora erigere un monumento a forma di elmo di un soldato nazista della Wehrmacht vicino Stalingrado? In realtà, oggi vogliamo anche essere amici della Germania. E siamo pronti a fare amicizia con l’Italia e mandargli aiuti per combattere la pandemia, ma erigere e custodire con cura il monumento ai fascisti di Mussolini in Russia, proprio nella zona dove furono trucidati dei civili, è blasfemia, un insulto alla memoria delle vittime del fascismo. Ricordiamoci… c’è un monumento a Rossosh dedicato a coloro che uccisero dodici abitanti del vicino villaggio di Olkhovatka, brutalmente assassinati per ordine dei comandanti italiani e che ora sono considerati “eroi” in Italia. No, non può esistere un monumento simile qui.
La polemica diventa scandalo politico poichè si viene a sapere che, le autorità cittadine locali che approvarono la costruzione del piccolo memoriale e le conseguenti celebrazioni anche a carattere annuale, furono invitate con le rispettive famiglie in vacanza in Italia a spese, pare, degli Alpini stessi.
Una sorta di ricompensa, a dire dei fautori della polemica, per aver lasciato costruire il piccolo sacrario e poter celebrare gli anniversari di quei giorni di guerra.
La polemica ideologica che a Rossosh va avanti da qualche anno non ha attecchito eccessivamente, a quanto sembra, tra la popolazione locale. Anche perché dai violenti fatti citati sono passati più di settanta anni e la triste memoria di quei giorni degli “occupanti” italiani è oramai sbiadita.
Quasi cancellata da tutto quello di piacevole che da decenni l’Italia e gli italiani rappresentano per i russi, a partire dai cantanti delle edizioni di Sanremo degli anni ’80 fino alla moda, al design, al cibo, alle vacanze nella penisola.
Non bisogna però evitare di sottolineare che gli Alpini come tutti gli altri reparti del Corpo di Spedizione inviati in Urss, ai tempi della Grande Guerra Patriottica (così è conosciuta in Russia la II° Guerra Mondiale), erano alleati dei nazisti e quindi, di fatto, fascisti ed invasori. Fu la successiva narrazione anche cinematografica a dipingerli, in Italia, esclusivamente come “Italiani, brava gente” (dal titolo del famoso film sulla Campagna di Russia uscito nel 1964). Ma è anche vero che in fondo molti di loro erano stati strappati minorenni alle famiglie ed alle loro terre ed una volta fatti vestire, irresponsabilmente, come per il clima italiano, furono spediti e costretti a recarsi nelle lontane e ghiacciate lande sovietiche non preparati a quello che li avrebbe attesi. Il fattore che causò il numero più alto di morti, infatti, fu il famigerato “Generale Inverno” di napoleonica memoria.
Migliaia di soldati pagarono con la propria vita l’atrocità della guerra ma soprattutto la scelleratezza e la bramosia di potere di chi in Italia decise di accodarsi alla suicida “Operazione Barbarossa” ideata dai vertici nazisti.
Violenze e crimini ingiustificati verso i civili inermi sono purtroppo una caratteristica di tutte le guerre, ovunque nel mondo, ma questo di certo non giustifica le azioni riprovevoli che vengono compiute da qualsiasi esercito.

Luca Pingitore

Articolo apparso su ilquotidianoditalia.it del 25/01/21

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