Chop. La porta d’ Europa

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Era il 1960 quando, la prima delegazione italiana ufficiale guidata dal diplomatico Rodolfo Siviero, transitò dalla stazione ferroviaria di Chop facendo il suo ingresso via treno nell’ allora Unione Sovietica.
Era il 2007 quando, una delegazione ufficiale di OTRA guidata dal direttore Geom. Calboni in compagnia del fido Gegè e del novello viaggiatore della domenica Il Professionista, transitò dalla stazione ferroviaria di Chop uscendo in treno dall’ Ukraijna.
Era il 2008 quando, il narratore – viaggiatore Paolo Rumiz, transitò dalla stazione ferroviaria di Chop ridiscendendo in linea retta l’ Europa.
Chop con la sua stazione ferroviaria ha sempre incarnato le nuove “Colonne di Ercole” verso l’ Europa orientale, oltre Chop e la sua stazione ferroviaria, è sempre vissuta l’ ombra del niente, dell’ ignoto, del male del pregiudizio.
Chop la porta d’ Europa.
Il fascino che ha trasmesso questa località e la sua stazione ferroviaria è rimasto immutato nel corso degli anni, anche dopo che l’ URSS e tutte le sue presunte nebbie si sono disciolte ma questa piccola località di confine è sempre rimasta a guardia di un mondo.
Come detto era il 2007 quando vi transitai per la prima volta. Si rientrava in Unione Europea provenendo da L’ viv e sostai con i miei compagni di viaggio giusto poco tempo. Quello di lasciarmi ispezionare, interrogare, trattenere negli uffici da parte della milizia locale prima di salpare, con un vagone dedicato al passaggio di confine, alla volta dell’ Ungheria. Qualche giorno prima, al confine di Szeginie, qualche centinaio di chilometri più a nord in entrata a piedi dalla Polonia, non mi apposero il timbro sul passaporto. Forse ai miliziani ucraini di Chop si presentò davanti il primo caso di un immigrato irregolare italiano in Ukraijna.
Nonostante la tensione del momento, non potei comunque non fare a meno di notare i dettagli della stazione ferroviaria adornata da un paio di affreschi giganti con motivi cari alla rivoluzione socialista e densi di significati allegorici.
Esattamente 6 anni fa (anche allora correvano i primissimi giorni di gennaio) noi viaggiatori apparimmo alla milizia quasi alla stregua di extra terrestri venuti chissà da dove (soprattutto io, immigrato clandestino), questa volta invece, noto un’ atmosfera differente, più abituata a vedere il passaggio di stranieri. Sono passati gli anni, è stata abolita la sovieticissima carta d’ immigrazione per il forestiero, si sono svolti gli Europei di calcio ed anche se questa zona non è stata toccata dai benefici eventuali, vive comunque di riflesso di una certa maggiore apertura.
Questa volta ritorno a Chop in entrata verso l’ Ukraijna.
E’ il 1 gennaio sera. Sono solo all’ aeroporto di Balice, nei pressi di Krakow, a rimuginare sui recentissimi bagordi polacchi di Capodanno.
Il mio aereo per Budapest ritarda, la Cappa Negativa fa il suo esordio anche per il 2013.
Raggiungo il mio ostellaccio di Budapest, nei pressi di Keleti palyudvar a notte tarda. Il mio tassista, premuroso, si accerta che qualcuno mi apra il portone prima di abbandonarmi al mio destino. Ero già pronto, nell’ eventualità, a trascorrere la notte per strada, come d’ altronde feci la mia prima volta in assoluto nella capitale magiara oramai ben 10 anni fa. Mi rimetto in sesto per qualche ora ed al canto del gallo sono già nuovamente on the road.
Il mio treno per il confine ungherese, per il profondo est del paese, per Zahony, corre nell’ oscurità della gelida alba magiara. La campagna ungherese è innevata ma attraversarla per la sua completa estensione è un piacere, ricordando tra l’ altro, il viaggio in senso inverso di alcuni anni fa. Il treno attracca a Zahony, l’ emozione sale ed il viaggio entra nel vivo. Sfondare le frontiere è una scarica di adrenalina che solo poche altre cose possono darti. Certo, oramai moltissime frontiere, tra quelle rimaste in uso, vivono solo del ricordo di un tempo ma… la soddisfazione a sfondare è sempre tanta. Un gol della tua squadra, un abbordo di una ragazza a te interessante, lo sfondare una frontiera considerata difficile per mezzi e condizioni, cos’ altro può farti emozionare allo stesso modo?
Sarà una malattia, una devianza ma… contento di esserne affetto.
Come da ricordi, a Zahony non parlano inglese. Paradossalmente è cambiata la situazione più dall’ altra parte del confine che qui nel lembo estremo dell’ Unione Europea.
Sono in possesso del titolo di viaggio per Chop. Mi metto in coda sul binario dove, un vecchio treno composto da un paio di vagoni, effettua la spola tra Ungheria ed Ukraijna e viceversa. In questo angolo d’ Europa, i binari ancora possono attraversarsi a piedi senza sottopassaggi.
Il treno è blindato finchè i poliziotti magiari non controllano uno ad uno i passeggeri che vengono ammessi da una sola entrata. Biglietto ferroviario e passaporto alle mani e dopo un rapido controllo sei sul vagone. Il classico vecchio regionale ungherese che imparai già a conoscere nelle campagne di Dunajvaros o al confine di Gyekenyes con la Croazia.
Il treno sbuffa e si salpa. Poco più di 20 minuti che ti portano in uno sbalzo temporale di un’ ora in più di fuso orario. Questo è il jet leg: viverlo, sentirlo, esserci dentro. Altro che viaggiare in aereo.
Si guada il fiume Tisza, siamo già entrati in Ukraijna ed ecco che il treno si ferma. La caserma dell’ esercito ucraino, come la ricordavo 6 anni fa, è ancora lì uguale con la torretta d’ avvistamento e la bandiera nazionale che garrisce al vento. Lentamente un militare, oggi come allora, sale sul treno. Si riparte. Siamo a Chop. Scendiamo controllati a vista dai miliziani ed entriamo nella sala del controllo passaporti. Tale e quale ad allora, solo ripercorro i controlli in senso inverso. In fila, il mio occhio scorre i cartelli di avvisi ai viandanti. Questa volta sono in doppia lingua, ucraino ed inglese. Provo un po di delusione. Il mondo cambia sempre più. Ma il mio disappunto viene sopraffatto da un sorriso. Per segnalare il divieto di import – export di opere d’ arte c’è il disegno della Gioconda. Sarà di proprietà francese ma ravvedo come l’ Italia in generale gode sempre di alta considerazione praticamente ovunque.
Passo il controllo senza problemi e sono finalmente a casa. I miliziani controllano i bagagli dei miei predecessori in fila e tutti si autocostituiscono aspettando il loro turno. Io faccio il finto tonto e tiro diritto, nessuno mi dice niente. Come è cambiata la frontiera ucraina…
Eccomi di nuovo nell’ atrio della grigia stazione. Le gigantografie degli affreschi socialisti mi salutano e mi danno il bentornato.
Mi appresto ad acquistare il biglietto per Uzhgorod, la mia destinazione sapendo che anche qui l’ inglese è tabu. E ne sono contento, sia perché è segno che ancora qualche scampolo di diversità permane, sia perché posso testare le mie migliori conoscenze di russo (seppur l’ ucraino come lingua si differenzi da esso). La donna alla cassa che credo di riconoscere a distanza di tempo, alla mia richiesta di un biglietto per Uzhgorod mi risponde “All’ altra stazione”. Altra stazione? Ho capito bene? Allora Chop ha ben 2 stazioni ferroviarie…
Cado dalle nuvole e ripensando allo stesso equivoco che incappammo durante un precedente viaggio durante un cambio treno ad Armavir a ridosso del Caucaso russo dove le due stazioni si trovano a chilometri di distanza e penso “Chissà dove si trova l’ altra stazione”…
Non mi perdo d’ animo e fuoriesco all’ aria aperta. Come volevasi dimostrare la marshrutka in partenza per Uzhgorod sembra aspettare giusto me. Mi imbarco, il tempo di caricare un altro paio di babushke di tremila chili cadauno e ronziamo, abbarbicati uno sopra l’ altro, verso la capitale della Transcarpazia.
Non siamo neanche partiti che, alla mia sinistra, appare nella sua classica architettura sovietica, l’ altra stazione ferroviaria di Chop praticamente attigua a quella in cui sono arrivato.
La mia conoscenza con essa sarà per il ritorno. Ora mi aspetta Uzhgorod che raggiungiamo in poco più di 30 minuti di viaggio.

E’ la mattina presto del 5 gennaio 2013 quando una marshrutka proveniente da Uzhgorod mi scarica nell’ atrio della stazione. La brina mattutina sotto forma di una sottile nebbiolina mi accoglie. Sono nuovamente a Chop, la mitica Chop.
La solita cassiera è in pausa, il mio treno è tra più di un ‘ora e la mia amica verrà a salutarmi tra un po. Ho quindi il tempo di recarmi nella misteriosa ed attigua stazione ferroviaria. Per strada solo qualche tassista nullafacente, Chop a quest’ ora del sabato mattina sembra una cittadina fantasma. L’ albero di Natale nella piazza antistante “l’ altra” stazione è depresso. Chiazze di neve e ghiaccio sono sparse qua e là e fanno da cornice al mio triste arrivederci a questa parte d’ Ukraijna. “L’ altra” stazione da fuori sembra incorporare chissà quali cose. La costruzione è la classica che si trova praticamente in ogni città dell’ ex impero sovietico ma una volta all’ interno solo delusione. Niente di particolare in una sola piccola stanza con le biglietterie. Almeno nell’ altra stazione i due affreschi attirano la tua attenzione.
Giunge la mia amica e questa volta il discorso sfugge inevitabilmente sui racconti dei tempi passati, dei tempi della fanciullezza, dei tempi dell’ URSS.
Si parte da alcuni passeggeri in attesa che parlano esclusivamente ungherese pur essendo cittadini ucraini. A Chop risiede un’ ampia comunità ungherese con lingua e tradizioni ancora vive ma di passaporto ucraino. Si passa a parlare del regime dei visti per i frontalieri, gli abitanti di Chop, Uzhgorod e zone limitrofe. Hanno un permesso di sfondare in Ungheria fino a 50 chilometri dal confine o comunque fino a Debrecen, per molti di loro l’ Europa più profonda. Da buon italiano del sud faccio notare come in realtà, una volta arrivati a Debrecen chiunque possa, in teoria, arrivare fino a Lisbona o alla Valletta. Chi li controlla?
Ovviamente la paura di essere scoperti e di non poter più ottenere un visto e quindi viaggiare all’ estero e provare l’ ebbrezza della libertà sovrasta
l’ idea di illegalità da me proferita.
Chiedo come mai, trovandoci praticamente tra Ungheria e Slovacchia, i legami sono più forti con la prima rispetto alla seconda. I motivi veri e propri non si conoscono ma forse perché tra Slovacchia ed Ukraijna vige una sorta di leggera antipatia essendo i rapporti più tesi. O forse il motivo è che la Transcarpazia è stata per molti decenni territorio dell’ impero Austro- Ungarico ed ancora ne sono presenti i segni che comunque la gente trova positivi oltre che l’ Ungheria stessa, sentendosi un po l’ erede di quel regno ogni tanto lancia segnali in merito che per il governo centrale di Kijev sanno di provocazione, per i transcarpazi di un gioco politico.
Mi informo, ovviamente, sulla presenza delle due stazioni. Questa, quella degli affreschi, è sempre stata la stazione internazionale, la “porta d’ Europa”; l’ altra serve giusto al traffico locale e nazionale. Durante l’ Unione Sovietica, all’ interno dell’ “altra” stazione era ospitato anche un ristorante, il più esclusivo di Chop. Caduta l’ Urss, chiuse anche il ristorante.
Ma ben presto, una coppia di ungheresi si trasferì in città e da veri pionieri aprì una gelateria. La gelateria “Pinguin”. Erano i primi anni ’90 ed i bambini ex sovietici avevano nelle loro papille gustative solo il cono alla panna dal quale in seguito il Mcdonald’s prese spunto per il suo dessert (questo lo dico io, da anni oramai) ed un’ altra variante di gelato. Gli ungheresi, invece, portarono il gelato sotto varie forme, colorato in varie tonalità a seconda del gusto e dai gusti stessi differenti. Non sarà stato il gelato per eccellenza ma era giunto in città finalmente il gelato. Di cui i bambini cominciarono ad andare pazzi e le file si spostarono dai negozi di generi alimentari dell’ epoca sovietica per accaparrarsi un tozzo di pane, alla gelateria del Pinguino. Poi i tempi cambiarono pian piano e la novità del gelato ungherese divenne giusto un ricordo d’ infanzia.
E’ giunta l’ ora, per me, di partire. Saluto la mia amica, saluto l’ asettica stazione di Chop, il mio bagaglio viene setacciato e mi viene chiesto se trasporto pistole con me, mi viene controllato il passaporto, esco dall’ Ukraijna. Vengo caricato sul vagone per l’ Ungheria insieme ad altri sconosciuti compagni di viaggio. Si salpa, ci soffermiamo nuovamente davanti la vecchia caserma bianca, il militare controlla, transitiamo sul fiume Tisza, attraversiamo lo spazio temporale degni di Ritorno al Futuro di Zemeckis e siamo di nuovo a Zahony. I poliziotti ungheresi salgono sul treno e ci controllano uno ad uno. Rimetto piede sul suolo ungherese, ancora casa per me come tutta l’ Europa orientale ma già qui, al confine dell’ EU avverto un forte senso di occidente.
Chop e la sua porta d’ accesso verso l’ ombra del niente, dell’ ignoto, del male del pregiudizio, restano alle mie spalle.
Ma come da più di 10 anni a questa parte è solo un arrivederci al mondo incantanto che pulsa oltre le Colonne d’ Ercole dell’ era moderna.

LUCA PINGITORE

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